Home page Sul sito Storia Persone Natura Archeologia industriale Sport Links
Miniere e cave Impianti a fune Lavori


Lou Moulin dë Chantorano – Il mulino di Chantorano
Il mulino cantorano, quando c'è l'acqua non c'è il grano...


Il nome di questo piccolo mulino abbandonato la racconta lunga. Poche parole ricordano gli stenti di una vita grama in cui scarseggiava il grano e, per ironia della sorte, quando ce n'era non c'era acqua per far funzionare il mulino [Notare che in questa zona il termine “grano” viene spesso usato per la segale].


Foto: 2011.

Il nome “Chantorano” viene usato per identificare i cosiddetti mulini norvegesi.
Sono piccoli edifici a due piani. Al piano superiore ruota una macina ad asse verticale che al piano inferiore è dotato di pale e viene messo in rotazione da un getto d'acqua che proviene da un canale.
Si tratta di mulini molto inefficienti ma che, in certe epoche, erano l'unica alternativa al pestello...
In questo caso, un po' a monte dell'edificio, nel rio Aigo Groso che proviene dal vallone di Rodoretto, doveva essere stato fatto un “goùërc” la pozza che fungeva da presa d'acqua che poi andava in un canale. Il canale si avvicinava al mulino e negli ultimi metri l'acqua cadeva in un tronco di larice scavato che le dava la velocità e la forza necessarie per far girare la macina.
Esiste ancora l'atto di fondazione datato 4 febbraio 1592. Il mulino è stato usato fino agli anni '40.


La “condotta forzata” ante litteram che aumentava la velocità dell'acqua prima dell'impatto con le pale.
Foto: 1995.


Eccola di nuovo vista di fronte. Si vede bene che si tratta di un grosso tronco li larice scavato a a mano.
Foto: 1995.


L'arrivo del canale nell'edificio.
Foto: 1995.

Una particolarità di questo mulino è che l'architrave dell'apertura dalla quale usciva l'acqua è fatto con una macina rotta.
Non ho modo di sapere perché.
Ma dato che è stata usata durante la costruzione, verosimilmente la macina è stata rotta già durante la costruzione del mulino, magari durante il lavoro di bulino per farle prendere forma. E immagino che sia stato un dramma. Oggi un problema del genere si risolve con un po' di rabbia per del denaro sprecato. All'epoca occorreva cercare un'altra roccia e ricominciare un lavoro lunghissimo e faticosissimo senza la garanzia di avere un risultato.


In alto si vede la macina convertita in architrave.
Foto: 1995.


Piano superiore che ospitava la macina.
Foto: 2011.


La macina, che nel 1995 era ancora al primo piano, è caduta a causa del legname ormai marcito.
Foto: 2011.


A pochi metri dall'edificio si trova un grosso anfratto sotto delle rocce. È ben riparato. Non avendo informazioni in merito, immagino che potesse essere usato da deposito provvisorio.
Foto: 2011.

A questo mulino è legata una leggenda che narra la fine della sua attività. Ecco come ce la ricorda Teofilo G. Pons nel suo libro “Vita montanara e folklore nelle Valli Vladesi – Claudiana 1992.

Fra le decine di mulini sparsi per le Valli, vanno menzionati quei mulini quasi leggendari denominati di « cantarana », i quali erano legati all'irregolare defluire dell'acqua di cui, secondo i capricci delle stagioni, potevano disporre e che perciò funzionavano quando potevano. Come cercano di spiegare le formule che erano loro attribuite, cadenzate dal rumore della grande ruota di legno a compartimenti, "roudoun", o dalla macina che stentatamente e con monotonia ripeteva quelle formule onomatopeiche caratteristiche, di cui faremo cenno un po' più innanzi.
Uno dei più vecchi di tali mulini, quello di cui si vedono i ruderi sulla sinistra della Germanasca di Prali, a monte della Gianna, e che risale al 1592, non aveva, secondo la leggenda, voluto macinare altro che segale. E quando vi si portò del frumento, la ruota, dopo aver proferito a più riprese il suo lamentevole:

l' ê pâ da mi, l' ê pâ da mi!
(non è da me, non è da me!)

oppure:
cant la nën po, la nën po!
(quando non se ne può più, non se ne può più!),

si arrestò per sempre.


Il nome “pessimistico” del mulino riflette in effetti una situazione reale.
Il grano che veniva coltivato in valle, che in effetti era segale, viveva comunque alle massime altitudini che può raggiungere. Per cui la produttività dei raccolti era modesta ed esposta a rischi altissimi dovuti al clima della montagna. Questo fatto viene ricordato da Paolo Tosel in modo simpatico con un suo racconto.
Anche per quanto riguarda l'acqua non siamo nel mondo della leggenda. Questa zona delle alpi è effettivamente fra le meno piovose dell'arco alpino. Cosa che viene evidenziata, oltre che dalle statistiche pluviometriche,  dall'abbondante presenza di larici che sono poco esigenti in termini di precipitazioni. I torrenti hanno quindi un regime estremamente torrentizio con piene primaverili e lunghe secche estive ed invernali. E dopo i frequenti inverni poveri di neve manca anche la piena primaverile.
Strano vedere che, nel 2010, proprio nei paraggi di questo mulino siano iniziati i lavori di costruzione di una nuova centrale idroelettrica.

Torna indietro
Torna all'inizio
Language choice - Scelta della lingua