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Ai riva Giolitti
[Arriva Giolitti]
di Luigi Timbaldi

Quando Giovanni Giolitti scendeva a Pinerolo per recarsi a Cavour, il suo eremo spirituale dopo Ie dure e alle volte drammatiche fatiche di governo, una folla di cittadini lo attendeva sempre nella Piaz- za della Stazione. Erano in gran parte i postulanti al cavalierato, che spiavano il momento in cui si voltava verso di loro per lanciargli il saluto e il sor- riso propiziatorio.
Il tram a vapore impiegava sempre un po' di tempo prima di mettersi in moto. Dalla locomotiva ansimante uscivano faville, che qualche volta si in' castravano tra le ciglia e I’orbita dei poveri aspiranti, ma Ia croce valeva bene un po' di bruciore agli occhi.
Giolitti dominava tutti con la sira statura - metri 1,84 -- e con quel largo cappello da fattore di campagna. Indossava quasi sempre un tihgt nero, che gli dava I’aspetto di un presbiteriano irlandese, e si chinava alquanto per parlare con l'on.le Facta, piccolo, roseo, sorridente, e con il Comm. Falco, uno degli intimi del cenacolo di Cavour. Allora la croce da cavaliere era la mèta agognata dai buoni borghesi e dai contadini arricchiti, qualcosa come un santo crisma che consacrava e coonestava una vita di lavoro, senza troppe aspirazioni e senza troppi tormenti. I Governi se ne servivano come strumento elettorale.
Gaetano Salvemini, dopo le malaugurate elezioni del 1912 a Molfetta, chiamò Giolitti «ministro malavita», alludendo alla corruzione elettorale, alle pressioni dei prefetti e ai famosi mazzieri. Ma in verità, come dimostra Giovanni Ansaldo nel suo ottimo libro «Il Ministro della buona vita», la corruzione esercitata da Giolitti si limitava alle elargizioni di croci. Il cavaliere, sotto il Governo di Giolitti, come quello di Pelloux o di Saracco o di De Pretis, una volta insignito del brillante aggeggio, si batteva per il candidato del Governo come i cavalieri del Medio Evo per gli occhi della bella dama. Il Pinerolese, naturalmente, rigurgitava di cavalieri senza elmo e corazza e guai se si ometteva il titolo, parlando con un crociato del primo novecento! Ricordo che un oste di campagna non mi servì la cena prima che gli lanciassi un sonoro «Cavaliere». - Cavaier, c'am daga ‘na mesa buta... E mi portò una bottiglia intera con tanto di polvere e di ragnatele, segno di vetusta nobiltà. Motivo per cui il mio estro maligno mi fece sfornare un sonetto che fu per me come il carmen et error di Ovidio, vale a dire la condanna alla morte civile da parte di tutti i cavalieri della zona. Figuriamoci! Una terzina era questa testualmente:

    Cavaier! L'ai paura che al bechin,
    Quand c'am portran a l'ultima dimora,
    Dovrò di: «Cavaier, c'am sotra bin!»
   
    [Cavaliere! Ho paura che al becchino,
    Quando mi porteranno all'ultima dimora,
    Dovrò dire: «Cavvaliere, mi sotterri bene!»]
***
Ma quella sera dell'Ottobre 1911 non c’erano solo gli aspiranti al cavalierato, ma tutta una folla straripante dai viali fino all'ingresso della Stazione. Non solo, ma, quando dall'atrio spuntò l'imponente e quadrata figura del Presidente del Consiglio, una banda musicale intonò una marcia briosa che allora risuonava su tutte le piazze della penisola. Tripoli, bel suol d'amore...
L'impresa libica s'era già iniziata felicemente con lo sbarco dei marinai di Cagni e i bersaglieri si inoltravano fra i meandri delle oasi tra l'entusiasmo travolgente degli Italiani. Pascoli pronunziava la famosa frase: «La grande proletaria si è mossa», fornendo la traccia a tutti gli articoli e a tutti gli oratori. D'Annunzio lanciava dal Corriere della Sera le terzine eroiche delle Canzoni di oltre mare. Benché Giolitti avesse concepito e attuato l'impresa solo come una fatalità storica, in quanto se non andavamo noi in Libia, ci andavano gli altri, non intendendo in modo assoluto di dare esca alle infatuazioni nazionalistiche di Corradini, gli Italiani si accesero di passione per questa che essi chiamavano «impresa di oltremare», sorpassando i limiti in cui Giolitti voleva contenerla.
«L’ora di Tripoli! - scrive Giovanni Ansaldo - fu il titolo di un volume di occasione di Corradini, ma innumerevoli italiani credettero davvero di udirla scoccare al proprio orologio caricato dalla Storia in persona prima». Persino il socialismo l'aveva accolta con non eccessiva ostilità. La Confederazione del lavoro aveva, sì, dichiarato uno sciopero generale di protesta, ma «la protesta a braccia conserte, doveva mantenersi dignitosa e lontana da ogni atto di violenza». Se si pensa all'ostilità con la quale fu accolta l’impresa crispina con tanto di asportazione dei binari per impedire la partenza delle truppe, è ovvio che -ora la - protesta era solo pro forma, per salvaguardare il principio.
Strano a dirsi, solo un estremista di Forlì organizzava una lotta violenta a base di sabotaggi e azioni di piazza. Era Mussolini, il futuro fondatore dell'Impero!
Giolitti quella sera era reduce da Torino, dove al Regio aveva pronunziato un discorso, confermando I’assicurazione che la guerra, ben ristretta fra Italia e Turchia, nulla doveva innovare nel sistema politico d’Europa. Quando sentì le note dell'inno e vide tanta folla, guardò accigliato l'on.le Facta, come per rimproverarlo della messa in scena. Era l'uomo di antico stampo piemontese, quanto mai alieno dalle dimostrazioni di piazza, dalle parate e dalle cerimonie. Ma Facta non ne aveva colpa. Egli conosceva a fondo I’uomo di Dronero e sapeva che questi aveva fretta e che non vedeva I'ora di trovarsi a Cavour, nella vecchia casa del nonno Plochiù, accanto a Donna Rosa e alla fida Sablin, e poi al caffè Sociale tra la cerchia degli amici fidati, tra i quali il buon Geom. Perassi, scomparso immaturamente pochi mesi fa.
La manifestazione era sorta spontanea dai Pinerolesi di ogni ceto, non solo per un impeto di solidarietà per l'impresa, ma come per una testimonianza di affetto allo statista piemontese, che essi consideravano un po' concittadino, il concittadino che si fa onore E avevano altri motivi d'orgoglio. L’ammiraglio Cagni era anche lui una figura nota nel pinerolese, perché villeggiava a San Secondo, il generale Lequio, che faceva parte del corpo di spedizione, era un autentico pinerolese, e dalla Scuola di Cavalleria era partito anche quel giovane Tenente, il Conte Giulio Palma di Cesnola della vicina Bra, che assieme al Capitano Moizo volava audacemente sul deserto, oltre Ie oasi tripoline, con quelle disastrose carcasse che erano i primi apparecchi di guerra.
    Naviga, o corazzata,
    benigno è il vento
    e dolce la stagion...
Giolitti guardò il bombardino che gonfiava le gote e aveva gli occhi dolci come Ia stagion e alzò la mano, abbozzando un sorriso sul volto che si spianava. Poi sali sul vecchio tram, che si mosse lentamente brontolando come un vecchio catarroso.

Tratto da:
Vecchia Pinerolo
Luigi Timbaldi
1953

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