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Alpini e fanti ai Tredici Laghi
di Luigi Timbaldi

La piccola pattuglia, un tenente e dieci alpini, saliva verso i Tredici Laghi in un rigido pomeriggio di gennaio del 1931. Il sole illuminava ancora con una debole luce di carminio la cresta che culmina col Cappel di Envìe. Il vallone delle Miniere era già inghiottito da un’ombra azzurra e fredda.

L’ufficiale era alto e giovane, dal profilo un po’ efebeo che contrastava col suo torso robusto e col suo passo pesante da vero scarpone. Si chiamava Todesco. Eravamo amici e mi aveva invitato a partecipare alla spedizione eccezionale che consisteva nel preparare le camerate dei baraccamenti per il pernottamento di un reggimento di Fanteria. Dietro di noi saliva, sulla mulattiera rossastra qua e là chiazzata di ghiaccio, un vero Ercole, il caporale Costa, che faceva il «presentat arm» col cannoncino e un giorno in una bettola del borgo San Michele, aveva sbaragliato coi pugni dieci soldati di cavalleria con la sciabola sguainata. Gli alpini si sono sempre battuti contro tutti i soldati delle altre armi, i cavalleggeri, i bersaglieri, i «baiet» [fante o più in generale militare], quelli del genio; «l’arma del genio è l’arma dei fessi», intonavano a gola spiegata quando incontravano i genieri. Più tardi faranno a pugni con le Camicie nere, ma non credo per ragioni politiche, bensì per un incommensurabile spavaldo spirito di corpo. Erano un po’ come i Moschettieri del Re ai tempi di Richelieu.

Nei loro volti neri per il sole ed il gelo era stampato ciò che bolliva dentro.

-          Tenente - gridò il caporale Costa - io non ce la faccio. Dovrò proprio rimboccare le lenzuola ai «baiet? Cribio, pitost im fas frà». [Fanti? Per dinci, piuttosto mi faccio frate]

-          Ne scaravento dieci da solo nel Lago maggiore - urlò un alpinaccio.

Gli alpini chiamavano Lago maggiore quello più grosso davanti al baraccamento per la truppa, nel quale d’estate pescavano certe rane che sembravano polli. Erano rane squisite, ma io non le posso più mangiare da quando quelle birbe di Todesco, Glarey e Bongiovanni me le cucinarono al brodo, lasciando però la pelle verde della testa con quegli occhi che ora formano gli incubi dei miei sogni.

-          Mi raccomando nessun incidente. Altrimenti sono io che ci rimetto. Canta che ti passa.

E intonò la sapida canzone alpina: «Am fà mal ai pe’, an si marciapé». [https://www.youtube.com/watch?v=OfGwsQWbsRU]

Gli alpini fecero coro con le loro voci robuste, che ridestarono l’eco sonora della parete a destra del vallone delle Miniere. Qualcosa frusciò in alto sulla parete che incombeva a sinistra.

-          Silenzio - mormorò il Tenente.

Guardammo in alto. Lassù, sotto la cresta illuminata dal sole si vedeva una gibbosità sulla neve. Era come un bubbone pronto a scoppiare, dal quale uscivano dei pulviscoli bianchi. Era una valanga in gestazione.

Affrettammo il passo in silenzio, salendo senza posare il tacco ed evitando le pietre. Quando fummo fuori di tiro, il Tenente fermò la pattuglia.

-          Sono dei «baiet», disse, ma io sono responsabile anche di una valanga. E poi sono dei giovani come noi. Se però fossimo all’osteria e alzassero la voce qualche pugno di Costa non farebbe male.

-          Cribio - urlò il caporale mostrando le sue enormi mani di ferro.

-          Tu, Bertalot, scendi ad avvisarli, quantunque, quando passeranno, il gelo avrà già incatenato la neve. Ricordiamoci che la Buffa ha combattuto eroicamente nella grande guerra.

Il soldato Scese di corsa. E quasi nello stesso tempo scorgemmo, laggiù, una fila grigiastra.

-          I «Baiet» - urlarono gli alpini.

La fila si snodava lentamente ad una svolta della mulattiera come un lungo serpente. Ad un’altra svolta più in su, apparve la testa. La coda forse era ancora fra i pini incappucciati del Bosco nero. Puntando i binoccoli scorgemmo un uomo a cavallo, che precedeva di alcuni metri la colonna. Doveva essere molto voluminoso perché del mulo non si vedeva che la testa e la coda. Mi venne alla mente una stampa antica raffigurante Don Abbondio a cavallo della mula.

Il sole ora era scomparso dietro il Cornour e, quando ponemmo piede nell’ampia conca, sentii nelle ossa un freddo intenso. Il cielo d’un verde azzurro sembrava abbassarsi sopra di noi. Alcuni uccelli neri volarono sulle nostre teste con gridi striduli [con ogni probabilità erano dei gracchi]. La conca era tutta coperta di neve, dalla quale emergevano solo i baraccamenti solidi e grigiastri. Gli alpini vi penetrarono, tolsero le pesanti saracinesche di legno alle finestre, illuminarono i cameroni con la luce ad acetilene e prepararono la paglia.

Quando il loro lavoro fu terminato, ci arrampicammo sui roccioni che sembravano voler difendere la conca. Il serpente era ormai a duecento metri sotto di noi. I fanti ci videro e ci guardarono con un sospiro di sollievo. Ma il mulo era ormai allo stremo delle sue forze. Arrancava disperatamente, ma non avanzava di un metro. Gli alpini con un gesto istintivo ed improvviso si tolsero le giubbe e rimasero così, in maniche di camicia, ritti sul roccione, come per una sfida. Erano magnifici. Il caporale Costa li sovrastava tutti di una spanna ed aveva una posa gladiatoria, la testa eretta con quelle larghe mascelle e quel mento che sembrava la prora di una nave corsaresca. Bertalot, tornato di corsa dalla sua missione, era accanto a lui, il volto magro con un naso aquilino, occhi intelligenti e certe gambe sottili come quelle dei camosci. Era il rocciatore più audace della 26a Compagnia.

Rostagno, il cuoco, aveva invece qualcosa di placido e di pacchiano nel volto un po’ gianduiesco. Guardando i fanti che arrancavano nell’ultimo tratto più ripido della mulattiera, si rimboccava le maniche della camicia, ma tutti sapevano che non aveva mai picchiato neppure un mulo recalcitrante.

Perlino, alto, slanciato, con occhi furbi e un profilo da Don Giovanni della Compagnia, stava ritto su una gamba sola, bilanciando l’altra nel vuoto per mostrare ai fanti lo scarpone chiodato, mentre Guiducci, il sergente dei muli, basso e tarchiato, sorrideva sornionamente.

Visti così, nella luce crepuscolare, ritti sul piedistallo di roccia, sembravano più alti e più massicci. Un suggestivo gruppo statuario, che si staccava maggiormente dal paesaggio pietroso per il bianco delle camicie.

-          Rimettete le giubbe - urlò il Tenente.

-          Subito, ma ci devono vedere tutti - rispose Costa.

Era il gesto di reazione contro i fanti che profanavano il loro regno. Questi potevano salire per le mulattiere costruite dagli alpini, potevano dormire nei baraccamenti, ma il dominio della montagna era delle penne nere, che lo dividevano con le aquile ed i camosci. Solo essi, gli alpini del Pinerolo e del Fenestrelle, del Susa e dell’Exilles, avrebbero scalato le pareti vertiginose, attraversato i ghiacciai, issato sulle punte i mortai, mentre la fanfara intonava le canzoni alpine e il sole dei tremila e dei quattromila baciava le nappine rosse e bianche...

Il caporale Costa scese dal roccione, infilò la giubba e di corsa raggiunse la colonna. Il mulo, ora, liberato dal peso enorme, coglieva con le narici fumanti il profumo del fieno che veniva dai baraccamenti. Ma il colonnello tentava invano di salire a piedi. Le gambe erano come paralizzate dal freddo e dall’immobilità. Costa se lo mise a cavalcioni sulle spalle erculee e lo portò fino ai bordi del lago, dove il Tenente e gli alpini lo accolsero irrigidendosi nel saluto militare.

Il colonnello strinse la mano al Tenente e gli disse, sorridendo: - Ho visto ed ho capito. Ero anch’io un alpino. Siete in carattere. Forti e spavaldi. Ma nessuno di noi vuole estromettervi dal vostro regno di rocce e canaloni. Noi ci accontentiamo delle mulattiere.

Guardai Guiducci, che sorrideva sempre e da sornione. Perlino si avanzò di due passi, si frugò nelle tasche, ne estrasse un taccuino sgualcito e offrì al Colonnello una grossa stella alpina conservata religiosamente tra i fogli...

-          Signor colonnello omaggio degli alpini..

Il Tenente era raggiante, non tanto per la scena quasi deamicissiana, quanto perché nessun incidente aveva turbato la temuta spedizione.

Più tardi, mentre ci distendevamo sulla paglia e dai cameroni vicini veniva a intermittenze un fragore come di marosi, che era invece il russare formidabile degli ottocento fanti, il caporale Costa si avvicinò a lui e gli porse una lunga Virginia.

-          Tenent, Ca fuma… [Tenenti, fumi…]

-          It l’ass rubala… [L’hai rubata]

-          No, a son cascame adoss mentre i portavo el ColoneI… [No, mi è caduta addosso mentre portavo il colonnello]

-          Busiard... [Bugiardo]

Tratto da:
Luigi Timbaldi
Uomini e montagne Pinerolesi
Corriere Alpino – Tipografia Subalpina
Torre Pellice
1953

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