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Il vescovo dei Tredici Laghi
di Luigi Timbaldi

Per noi Pinerolesi, i Tredici Laghi, quando da ragazzi ne sentivamo parlare dai «vecio» [vecchio nell’accezione di professione], che allora erano ancora tutti alti e tarchiati con certi pizzi e certi nasi falcati da bucanieri del Golfo del Messico, avevano qualcosa di fiabesco e di irreale. I «vecio» si divertivano a raccontarci cose favolose, godendo del nostro stupore. Vi erano tredici laghi, dicevano, non uno di più e non uno di meno e dentro nuotavano pesci mostruosi e vi venivano a bere lepri e pernici bianche, mentre dall’alto l’aquila volteggiava scrutando le pietraie dove dormivano le marmotte e sulla cresta ogni tanto appariva il camoscio eremita, più nero di un corvo e più scaltro di una volpe, che nessun cacciatore aveva ancora potuto abbattere.
Quando vi salii la prima volta per Sapatlé e il Cappel d’Envie, una grande commozione mi prese alla gola. I «vecio» erano lì con zappe e picconi a costruire la mulattiera ardita e li vedevo anche se erano morti al Montenero o al Marmolada. I loro nomi erano incisi nei lastroni di granito come su tombe aeree. «Enrico Gerard, 1898, capporale del terso degli alpini - Edmondo Gril, 1900, del battalione [scritto proprio così nell’originale] Pinerolo - Giovanni Caffaratti di Bricherasio, 1902».
La mulattiera che s’inerpica su per i fianchi del monte fino alla cima spavalda simile ad un elmo gialloverde messo a sghimbescio sulla testa di un armigero sborniato, era tutta costellata di iscrizioni sgrammaticate come tre canzoni fiorite sulle balze del Trentino e del Cadore. Anime tozze, ma forti che avevano affidato al lastrone di pietra il loro nome e i loro affetti. «Mama, i tornoma... Mac pi trenta gavette... Aspettami sul sentiero...» [Mamma, torinamo… Solo più trenta gavette... Aspettami sul sentiero…].
Portavano ancora il cappello duro con la penna e una grossa nappina bianca - per questo quelli del Fenestrelle li chiamavano «i bero» [gli agnelli] - la giubba d’un blu nerastro e sullo zaino che sembrava un armadio c’era un trofeo di alpestok, racchette, teloni e bastoncini per la tenda. Qualcuno portava sulle spalle quadrate un cannoncino da montagna, altri, le ruote basse e solide. E guai se durante la salita l’alpino si sbottonava la giubba e si toglieva il colletto! Vita di naia d’allora tremenda e massacrante, ma dalla quale gli uomini uscivano selezionati, duri come il granito, tenaci e caparbi come i muli delle salmeria, le meravigliose navi della montagna che salivano spetezzando in risposta ai «cribio» [imprecazione gentile tipo “perdinci”] rabbiosi dei conducenti! E quando scendevano ai paesi e alla cittadina, fanfara in testa, il cappello a sghimbescio costellato di stelle alpine, i volti neri per il gelo, il sole e la tormenta, un-dui, un-dui, [un-due adattato alla parlata locale] battendo i tacchi con ritmo pesante sul selciato delle vie, le finestre si spalancavano è tra i vasi di gerani appariva la testa bionda o, bruna di una ragazza con gli occhi luccicanti...
No-dui, no-dui, «Sul cappello che noi portiamo... Noi soma alpin, s’am pias el vin… [Noi siamo alpini e ci piace il vino]
Una frase scolpita su un grosso macigno mi riempie di curiosità. «Viva el Vesco di Terdes Lac» [Viva il vescovo dei Tredici Laghi].
Il Vescovo dei Tredici Laghi? A che cosa alludeva l’anonimo scultore?
Quando, voltato il Cappel d’Envìe, mi affacciai alla conca luminosa nella quale i piccoli laghi sembravano coppe di cristallo per le libagioni degli dei della montagna, il mistero dell’iscrizione mi torturava la mente. Ma poi la bellezza del paesaggio alpestre mi prese tutto. Il Cornour con i suoi canaloni ghiaiosi risplendeva come argento al primo sole, stagliando la piccola punta piramidale nella seta azzurra del cielo. Il Belvedere e il Cornorino chiudevano la cresta ariosa ad occidente. Alla mia sinistra il Roux e la punta Cialancia e a destra, laggiù, il vallone tortuoso che scende verso Ghigo rigato ogni tanto da una piccola mulattiera rossa. Più sotto il Vallone delle Miniere, dove nei meriggi afosi luccicano al sole i viperoni attorcigliati che fanno la siesta.
La conca non è armonica come molte altre del cerchio alpino, quelle del Barbara, del Piano del Re, del Prà, i laghi sono piccoli e non certo pittoreschi come quelli del Viso, tutti con colori diversi, o come quello del Granero che sembra un’elsa di pugnale verde azzurra, non hanno la suggestività romantica del lago della Cristalliera a forma di cuore con le rive cariche di rododendri e neppure la limpidità argentea del lago del Nuvolet a quasi tremila metri, ma tuttavia c’è qualcosa ai Tredici Laghi che ci afferra potentemente e non sai definirla. Forse, perché es.sa è il regno incontrastato della roccia, senza quasi un filo d’erba salvo sulla fine di settembre una strana fioritura rosso sangue che i valligiani chiamano «pere Martin», forse perché è la meno rumorosa di tutte le conche, senza rombi di cascate e sibili di vento. Solo ogni tanto i fischi delle marmotte e il grido rauco dell’aquila. Ne sa qualche cosa l’amico avv. Cici Zola, che, volendo provare le sue doti forensi sulla folla composta dal sottoscritto, dal capitano Fausto Sartorio e dal fratello ing. Piero, fu accolto da una sonora e petulante salva di fischi che lo costrinse a scendere precipitosamente dalla tribuna di granito. E poi la conca dei Tredici Laghi è un po’ come Roma dove affluiscono tutte le vie del mondo. Vi sono salito dal Cappel di Envie, dalla Vaccera per il tremendo Infernet, dal Gran Truc attraverso Porta Cialancia, da Bobbio per il Co le Giuliano, da Torre Pellice per il passo del Roux e una infinità di volte da Ghigo. Ospite del tenente Glarey, vi sostai un mese, durante il quale il mio strano anfitrione mi nutrì continuamente di marmotte e di rane. Glarey era piccolo e tarchiato e con Vinçon formava un perfetto articolo «il», masticava l’erre come un nobile di razza e per questa caratteristica i «vecio» lo chiamavano «ruggine». Era un grande rocciatore, e il più distratto degli ufficiali. Una volta a Pinerolo comparve sotto i Portici con un solo gambale e sovente per distrazione mi cucinava la minestra di erbe alpine con lo zucchero.
Ma chi era il vescovo dei Tredici Laghi?
Il mistero mi fu svelato da un «vecio» superstite della classe del 1899. Il Vescovo era il tenente che comandava i «lavori» ai Tredici Laghi. Così lo avevano battezzato gli alpini per qualcosa di ieratico, che aveva nel volto magro, occhialuto, e per la sua mania di dipingere santi e cherubini un po’ dovunque, sulle rocce piatte in riva al lago più grande, sui muri del baraccamento e persino sui piatti e sugli asciugamani. Erano dei santi con tanto di aureola dorata, ma i volti erano quelli dei suoi alpini. Il «vecio» che mi rievoca il suo tenente mistico e un po’ burlone, appoggiato sul manico della zappa nel suo campicello dal quale si vedono il Roux e il Cornour, mi dice ridendo: «Io ero San Marco, con tanto di barba e una pipetta di gesso, in bocca. Lui ci coglieva con le nostre abitudini e la mia pipa era proverbiale, perché non l’abbandonavo, neppure dormendo. Mio cugino, che aveva un naso molto pronunziato, diventò S. Carlo con un nasone che sembrava una tromba. Gli volevamo un bene dell’anima, perché era buono e non ci puniva mai, ma sapeva tenere la disciplina con fermezza. Ad ogni ritratto esigeva da noi la promessa che non avremmo mai bestemmiato. E per due mesi non si sentiva nella conca che qualche “cribio„ e qualche “sacherdisna„ [imprecazione generica usata per evitare quelle volgari].
Poi il vecchio alpino tace, guardando il Cornour, e gli occhi sono un po’ umidi e tristi. Il Vescovo riposa anche lui a Redipuglia, assieme ai suoi santi dei Tredici Laghi.
Fanfara in testa, cappello a sghimbescio - no-dui, no-dui - la biondina alla finestra. Coglierem le stelle alpine, per portarle alle bambine... No-dui.

***

Qualche osservazione quasi un secolo dopo…
L’autore non menziona il nome del Tenente soprannominato Vescovo né per il momento mi è capitato di vedere qualcuno dei dipinti di santi menzionati nell’articolo.
Posso però citare alcuni “indizi”.
Nel ricovero N° 6 ci sono resti di decorazioni pittoriche che sembrano essere state fatte con stencil. Posso solo immaginare che l’appassionato di pittura fosse lui.
Non ho documenti che dicano chi era che “comandava i «lavori» ai Tredici Laghi” ma la caserma che si trovava a Villa era dedicata al Tenente Giovanni Grill che effettivamente è tumulato a Redipuglia.


Tratto da:
Luigi Timbaldi
Uomini e montagne Pinerolesi
Corriere Alpino – Tipografia Subalpina
Torre Pellice
1953

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