II gentile appello
dell'amico Peyran nel numero 28 del Pellice affinchè io mi ricordi
anche della Val Germanasca nei miei vagabondaggi alpini, mi ha
suscitato dentro un mondo di care nostalgie.
In Val Germanasca e
specialmente a Perrero, Balsiglia, Sapatlé, Villa e Ghigo di Praly, ho
vissuto le mie giornate di spensierate vacanze estive, da quando a
Ghigo si poteva arrivare solo a piedi o a dorso di muli per una sassosa
mulattiera, schiacciata fra il torrente e i fianchi del monte, fino al
miracolo della S.A.P.A.V. [Società Automobilistica Perosa Alte Valli
poi confluita nella SADEM ndr.] che ha collegato con Pinerolo e Torino
le più
remote borgate alpine.
Allora i turisti nella conca di Ghigo si
contavano sulle dita della mano. Qualche cacciatore, verso i primi di
settembre, e qualche solitario vagabondo assetato di verde e di roccia.
La prima volta che capitai a Ghigo, nel lontano 1904, arrivavo
nientemeno che da Torre Pellice attraverso la Val Angrogna e il Passo
del Roux. Io ho avuto la ventura di scendere quasi sempre dall'alto sui
principali centri alpini. Al Prà piombai la prima volta con due amici
dal Colle della Croce. Avevamo fatto in due giorni la traversata da
Barge al Colle delle Traversette e alla Montà. Così scesi a Ceresole
Reale da Forno Alpi Graie, a Valsavaranche dal Colle Nivolet, a Cesana
dal Colle Frappié e la val Argentiera, a Bardonecchia dal Colomon, a
Gressoney la Trinité attraverso il Castore.
Ho sempre avuto la
passione dei valichi e nel 1929 - non mi si taccia di esibizionismo,
per carità, sono soltanto dei piccoli orgogli consentiti ad un
settantenne - ho compiuto con sei studenti universitari di Pavia un «
raid » alpinistico dal Viso al Rosa in 35 giorni. Sono stato perciò un
precursore dei « raid » alpinistici di quest'anno, da quello di Bonatto
al recente che hanno compiuto le guide Valdostane. Il mio raid era
stato studiato nei minimi particolari in una notte nel Murefreid
- come vede, caro Peyran, siamo sempre in Val Germanasca - da me
e dal compianto Capitano Laiolo, un vero lupo di montagna, scomparso
poi, pochi mesi dopo, nel vortice bianco di Rochemolles.
Ma erano
tuffi rapidi, durante i quali le bellezze di una conca ci apparivano
come capovolte, mentre una specie di ebbrezza fisica ci toglieva la
capacità di osservare e di pensare. Le conche alpine invece bisogna
goderle risalendo la valle, in modo da trovarsele davanti nello
scenario delle cime e delle pendici.
Ghigo è come una perla
incastonata fra i monti. Niente di maestoso come Ceresole Reale e
Courmayeur, o di romantico come la conca di Reimes, ma qualcosa di
idilliaco e di armonico che afferra l'anima. Una sonata di Schubert o
di Schuman. Si ha l'impressione come di una coppa d'oro, perché il
verde dei prati che scendono dolcemente da Bou du Col è oro morbido
vellutato come i capelli d'una nordica, reso più vivo dal contrasto con
il Bosco nero e con i canaloni ripidi verdastri della Vergia.
La
Grande Aiguille e la punta Rasin sono i due punti armonici della conca.
L'idillio è solo rotto da quell'elmo di Scipio color rosso scarlatto
del Cappel d'Envie che si sporge sopra il Bosco nero a guardare in
basso con aria sbarazzina e dalla cascatella del Bou du Col, una lama
fatta d'argento piantata nel cuore del verde oro.
Allora -
cinquant'anni fa - il borgo si riduceva a cinque o sei case attorno
alla Chiesetta, un lungo caseggiato con balconate di legno nero, che
serviva per la Finanza e le Scuole, la Trattoria e il negozio di
commestibili del sindaco, sig. Rostan, una «dependance» a due piani
della trattoria con finestre nude, desolate, un'altra piccola
trattoria, detta della Pace, quasi ai piedi del Bosco nero. Fra i due
caseggiati principali vi era una piazzetta con una fontana pettegola
che versava l'acqua fresca e chiara nel tronco incavato di un pino. A
destra, sul prato in pendio, un mulino con la grossa ruota di larice e,
un po' sopra, il piccolo cimitero con le tombe coperte d'erica e di
ortiche. Ricordo una piccola lapide di marmo verde ed una epigrafe
tacitiana : «Ernesto Grill - Capporale del terso degli Alpini».
Trattoria della Pace ripresa nel 2012 ma che dovrebbe essere rimasta
piuttosto simile a com'era al tempo di Luigi Timbaldi.
Dettaglio di un'insegna.
Foto: 2012.
Dettaglio.
Foto: 2012.
Resti di un'insegna.
Foto: 2012.
Fra
i due caseggiati principali vi era una piazzetta con una fontana
pettegola che versava l'acqua fresca e chiara nel tronco incavato di un
pino.
Cartolina datata 1906.
Dove
era caduto quel «capporale» degli Alpini? Quella lapide sul bianco del
muricciolo, senza la tomba, mi fa supporre che fosse caduto in Africa,
a Dogali o ad Adua. Allora non vi erano ancora i Parchi o i Viali della
Rimembranza e i valligiani lo avevano voluto ricordare con quella
lapide del cimitero, nella quale vi è tutta l'anima alpina della valle.
Un
vecchio, alto, segaligno, con due soli denti nella bocca enorme, che la
domenica sera aveva già vuotato una ventina di quarti, soleva fare dei
soliloqui davanti alle bottiglie vuote e qualche volta urlava: « Ras
Alula! Ca vena a Ghigo se ass sent. Cai vena anche Menelik e Taitù.
Cribio, i soma Alpin ». Mi ricordava un vecchio barbiere di Pinerolo —
sotto i portici vicino al Maritano — che, mentre ti afferrava il naso
per raderti, con l'altra mano roteava il rasoio, urlando: « Col bastard
ed Radeski! ». Roteava anche gli occhi ed io avevo una gran paura di
quella lama che mi passava e ripassava vicino al naso.
Poveri, forti
alpini della valle, fieri di essere del « terso », che hanno scolpito i
loro nomi sui fianchi della solida mulattiera da loro costruita a colpi
di mine e di piccone da Sapatlè al Cappel d'Envie! I baraccamenti dei
Tredici Laghi sono stati quasi distrutti dalla furia della lotta
civile, ma i loro nomi incisi sulle rocce rimarranno nei secoli,
testimonianza di un fiero orgoglio montanaro. « Capporale del terso
degli Alpini».
La Val Germanasca ha avuto un eccezionale ammiratore
nel 700. Un viaggiatore inglese la percorse in lungo e in largo e
scrisse un libro, che ho consultato molti anni fa nella Biblioteca
Civica di Pinerolo. E' un volume di gran pregio, non solo per le
brillanti descrizioni di località note, come Ghigo, Villa di Praly, Bou
du Col, Sapatlé, Perrero, Balsiglia e Salza, ma per le magnifiche
stampe.
Il viaggiatore del Settecento si dimostra pieno di
meraviglia per l'artigianato della valle, soprattutto per certe stufe
di talco e recipienti per la cucina, lancia gridi di sorpresa per certe
pietre bianche sui fianchi di Roccabianca, che riconosce subito per
marmo, ammira i paesaggi deliziosi e la vita semplice e buona dei
montanari, si commuove ai cori un po' tristi che nei tramonti, quando
la valle si copre di un sottile velo di nebbia azzurra, s'alzano
attorno alle baite sparse per i pendii erbosi.
E a proposito di
cori, io ricordo un episodio simpatico, del quale fui anche un po'
protagonista a Villa di Praly. Avevamo pranzato rusticamente, io il
tenente Glarey ed il tenente Alessandri dell'Exilles, nella trattoria
di Bartelemy. Antipasto di peperoni rossi e gialli, pasta asciutta alla
dinamite, e cioè con acciughe, tonno e pepe, formaggio caprino, tutte
cose atte a stuzzicare la nostra sete di barbera. Poi, seduti a tavola
nel praticello davanti alla Trattoria, avevano intonato le canzoni
alpine. « Mi son alpin, s'an pias el vin. Il barcarol del Brenta. Am
fa mal ai pè, 'n si marciapè ».
Io ad un tratto intonai la canzone
della ragazza che si lagna perché la mamma vuoi che fili, ma lei ha
tanto da fare ed è disperata.
Mia mama a veul che fila al lunes,
E mi al lunes scerno le pules
Un po' da sì, un po' da là, la mia mama,
Fé da scina e da mangè
La mia mama a veul chi fila
E mi i peuss pà file...
E' una canzone burlesca, ma che ha un tono triste, semi tragico, un
lamento musicale di fine stesura.
La canzone fa parte di quelle raccolte da Leone Sinigaglia che ne ha
anche tratta una versione per orchestra.
Mentre
cantavamo la terza strofa, una figura alta, imponente, con una lunga
barba bianca, un volto pallido ed una fronte spaziosa, si affacciò al
balcone di legno nero. Quando terminammo la canzone e stavamo per
cantarne un'altra, l'uomo parlò: «Per favore, la ripetano ».
Lo accontentammo e ci ringraziò con voce commossa.
- Non la conoscevo - disse - ma è una cosa deliziosa.
Era
l'illustre M.o Thermignon, il Direttore della Scuola Corale Tempia di
Torino, che allora mieteva allori in tutte le capitali d'Europa.
A
Ghigo in quell'estate — 1930 — sembrava si fossero date convegno
personalità dell'arte, della letteratura e del giornalismo. Vi era
Francesco Bernardelli, il profondo critico teatrale della «Stampa », al
quale la conca lasciò un ricordo simpatico tanto che ogni qual volta mi
incontra, mi rievoca le passeggiate nel Bosco nero, e vi era Renato
Casalbore, il quale, per recarsi in camera sua, non avendo ancora
l'Albergo ultimata la scala centrale, doveva salire in camera mia per
una scala a pioli e poi passare su un balcone pericolante. E quel
sornione di Edmondo Grill, l'albergatore, che rideva...
Edmondo
Grill! Vorrei tanto rubarti un pranzo, ma io, a Ghigo, non torno più.
Troppi ricordi... Non potrei più gustare il capretto alla « save »
cucinato nella pineta da Saba, il rosso e panciuto brigadiere delle
Finanze, non potrei più godermi le deliziose fragole di Riba, ospite
dei carabinieri nella loro baita adibita a Caserma, non potrei più col
tenente Gandolfo e con Bertalot disturbare i sonni della bella ebrea
che dormiva nella « dependance... », lui con la fisarmonica io col
mandolino...
Perché ho anche suonato il mandolino.
Sciagurato!
Tratto da:
Uomini e montagne Pinerolesi
Luigi Timbaldi
1957