Fu certamente a Pinerolo che Pio XI
sentì per la prima volta l'attrazione delle vette. Suo padre, il sig.
Ratti, era direttore del Setificio Quest e il figlio giovanissimo, che
studiava Teologia nel Seminario di Milano, veniva a trascorrere le
vacanze estive sul Colle di San Maurizio. Quando si affacciava alla
balconata di mirto del piazzale, il suo sguardo si posava estasiato sul
Viso, alto ed armonico sulla cresta azzurra delle Alpi, e, quando
s'inoltrava sotto il magnifico viale di ippocastani, il massiccio
imponente del Roux, del Cornour e della Cialancia sembrava gli venisse
incontro per invitarlo a salire.
In questo stupendo scenario, il suo animo ardente si sublima in una
contemplazione quasi mistica della montagna, che gli si rivela come
nell'immagine ispirata del Profeta: « Dedit abyssus vocem suam;
altitudo manus suas levavit ». Più tardi, quando avrà già provato tutte
le forti e alle volte drammatiche emozioni delle ascensioni, egli
scriverà: « In poche parti del Creato si rivela così splendida come
nell'alta montagna la bellezza di Dio e la sua provvida sapienza ».
Qualcosa di irresistibile spinge allora il giovane seminarista — siamo
tra il 1880 e il 1890 — ad afferrare l'alpestok, a mettersi il sacco
sulle spalle e a partire verso le cime dei nostri monti Pinerolesi, che
gli serviranno da palestra e da addestramento per le più ardimentose
scalate, quando, ormai adulto, dividerà la sua vita fra la passione dei
libri — fu per molti anni Prefetto dell'Ambrosiana — e quella dei monti.
Le sue imprese sono famose nella storia dell'alpinismo. Aveva qualcosa
del pioniere e dell'Ulisside e non poteva ricalcare le vie note. Lo
tentava l'ignoto ed il mistero. Ogni sua scalata, ogni sua traversata è
una conquista.
Nel 1889 compie con l'amico fedelissimo Don Grasselli l'impresa della
Dufour, la cima più eccelsa del Monte Rosa, già tentata invano nel 1887
da Marinelli e Inseng. Raggiunta la punta Est, il vento impetuoso li
costringe a ripiegare a quota 4.600 e a passare la notte all'addiaccio
sopra una stretta falda rocciosa, con una temperatura polare. Anche la
notte seguente fu passata sotto le stelle. Quando finalmente giunsero
con i propri mezzi a Zermat, Monsignor Ratti non volle concedersi
riposo di sorta, affascinato com'era dalla vetta del Cervino, e ne
tentò subito la scalata. La nuova via tracciata sul Monte Rosa è ora
conosciuta col nome di Via Ratti.
Ma un'altra impresa famosa egli compie sul Monte Bianco, che si scalava
allora solo attraverso il ghiacciaio della Bremva. Egli scese per la
prima volta dalla più alta vetta d'Europa per il colle Bionassei, il
Dôme e il ghiacciaio del Miage. Anche questa via ha ora il nome di Via
Ratti.
Ho potuto rendermi conto delle tremende difficoltà affrontate da Mons.
Ratti, perché ho avuto la fortuna di percorrere questa nuova via,
salendo da Courmayeur, con alcuni studenti universitari di Pavia e la
guida Barreux. Dal lago del Miage, piccolissimo tra alte pareti di
ghiaccio terroso, il ghiacciaio sale per otto chilometri, fiancheggiato
da vette superbe, dalle quali scendono come bianchi torrentelli le
slavine. Mai avevo visto una neve così pura e morbida e bianca. In
dodici ore abbiamo raggiunto il rifugio del Dôme, incatenato con grosse
gomene d'acciaio alla roccia, perché a quell'altezza — 3.500 metri — il
vento è alle volte di una violenza spaventosa. Sotto il rifugio,
vedevamo laggiù in basso, tre bocche enormi di crepacci, che ci
facevano pensare alle dantesche gole canine di Cerbero,
Nel tepore confortevole del Rifugio, io pensavo alle eccezionali
difficoltà incontrate nella discesa da Mons. Ratti, affaticato già da
almeno otto ore di acrobazie per evitare i crepacci e le slavine,
incerto sulla via da tentare, accecato e quasi strappato dal vento agli
appigli di roccia o di ghiaccio, mentre la notte incombeva sul picco
aguzzo del Dôme e non c'era riparo di sorta. Lui e Don Grasselli
dovevano essere uomini d'acciaio moralmente e fisicamente, ricchi di
volontà indomabile e di accorgimenti infiniti. Altrimenti era la morte
sicura. Mi sentii piccino e pieno di fatuità nella mia incommensurabile
vanità di scalare il Bianco.
Ma, se sono note le sue imprese alpinistiche su tutto l'imponente arco
alpino, quali vette Pinerolesi ha scalato il giovane chierico Ratti?
E' una curiosità che mi ha assillato per molli anni e che ho potuto
soddisfare in parte solo recentemente, in seguito ad una intervista con
l'attuale Parroco di San Maurizio, Can. Solera, che fu trattenuto
parecchie volte a colloquio intimo da Pio XI.
Sfortunatamente1 il mio amico Can. Solera non ha la passione
alpinistica e non conosce forse altre cime che quelle dell'Albergian e
dell'Ornerà, che gli feci scalare nel 1900 in una avventurosa
traversata da Perrero al Puy di Fenestrelle. Perciò non ha saputo
rispondere alle domande del Pontefice che si susseguivano fitte come
una moschetteria. E' stato sul Granerò, conosce il Boucìe, il Palava»,
il Ghinivert? Don Solerà taceva, quasi umiliato ed intontito. Pio XI
ricordava tutte le nostre cime, le località più remote delle nostre
valli, i nomi delle frazioni sperdute sui fianchi dei monti, persino
quella del Rif, la Val Troncea, la Valle Argentera,
Sapatlé e i
Tredici Laghi.
Rievocando i
Tredici Laghi, il
Papa alpinista esclamò: «Io ho una
grande stima dei Piemontesi e in modo particolare dei Pinerolesi, tra i
quali conservo alcune care amicizie — era amico del signor Marone,
proprietario della villa che ospitò Edmondo De Amicis — ma se i
Piemontesi fossero dei Lombardi, avrebbero valorizzato i
Tredici Laghi,
perché il sole di quella conca superba ha eccezionali qualità
terapeutiche ».
Poi il Pontefice gli raccontò ridendo una sua avventura al Lauson. Vi
sono parecchi Lauson nelle nostre valli, ma Papa Ratti alludeva
certamente alle grange del Lauson sulla impervia mulattiera che da
Balsiglia sale al Moremout e all'Albergian, tra gli strapiombi
verdastri del Ghinivert e il costone roccioso giallognolo del Politri e
della Feia Nera.
Erano in due, con gli abiti borghesi mal ridotti da una notte trascorsa
nel fieno d'una grangia. Venivano da Perrero e intendevano compiere la
traversata dell'Albergian, scendendo a Fenestrelle. Stavano lavandosi
all'acqua gelida di una fonte, quando si trovarono di fronte due
carabinieri che allora erano ancora chiusi nella pesante divisa nera e
portavano maestosamente sul capo la famosa « lucerna ».
— Chi siete? Di dove venite? Fuori i documenti.
Ma il chierico Ratti e il suo compagno non avevano documenti. Allora
non c'erano ancora tessere, né carte di identità, né libretti di
lavoro. Nelle loro tasche i carabinieri, che grondavano sudore, non
trovarono che alcuni scudi d'argento grossi e pesanti dell'epoca
umbertina, alcuni soldoni da dieci centesimi, qualche immagine sacra e
una cartolina riproducente la Madonnina d'oro del Duomo di Milano. I
due malcapitati, un futuro Pontefice ed un futuro sacerdote, furono
arrestati come vagabondi e portati a Perrero, dove attesero per due
giorni le informazioni da Pinerolo. Il Pontefice, rievocando
l'avventura, rideva di gusto. «Non ho mai saputo il nome dei due bravi
carabinieri, i quali hanno fatto il loro dovere perché quella mattina
avevamo un aspetto poco rassicurante. Ma, se Lei li rintraccia, invierò
loro l'apostolica benedizione... ».
L'episodio è assolutamente inedito, perché Don Solera, di natura
riservatissimo e sobrio di parole, non l'ha mai comunicato ad altri
giornalisti. E mi perdonera, spero, se io lo divulgo, perché io sono
d'indole diversa dalla sua, chiacchierone, pettegolo e un po' sfacciato
come deve essere un perfetto reporter. Anni fa avevo giurato
solennemente a Jule Brocherel, l'alpinista scrittore di Val d'Aosta,
che non avrei mai divulgato alcuni importanti episodi sull'Abbé Gorrét,
su Giosuè Carducci e la Regina Margherita, ma la sera stessa un
«espresso» da Courmayeur li spiattellava ad un giornale di Milano. Sia
pace all'anima mia!
Ma l'episodio è altamente rivelatore della forte nostalgia di Pio XI
per il Pinerolese e per tutto ciò che sapeva di cose alpine. Quando
egli ricevette in udienza particolare le taciturne guide del Vallese,
li trattenne per un'ora e rivisse con loro la sua tremenda avventura
sulla Dufour, l'addiaccio a 4600 metri sopra una stretta falda rocciosa
« tra un infinito vivissimo scintillar di stelle nell'azzurro profondo
del ciclo ed un protendersi e incontrarsi di ombre giganti sulla
candida distesa delle nevi e dei ghiacci ».
Con Don Solerà poi il colloquio assumeva sempre qualcosa di intimo,
come se si trovasse ancora sul piazzale di San Maurizio, di fronte al
Viso e al Cournour, come se rivivesse la sua fremente giovinezza
assetata di vertici, di bellezza e di santità.
Tratto da:
Uomini e montagne Pinerolesi
Luigi Timbaldi
1957