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Oggi Valdesi Preistoria Guerra


Un testamento in una scodella.
di Luigi Timbaldi


Fui preso al Ponte Vecchio, dove si biforcano le due strade, una pianeggiante e rossastra per Mugniva, l'altra per Rorà, tutta a tourniqués sotto archi di trionfo di betulle e castani. Venivo da Rorà, dove avevo portato ai miei amici ebrei — lo scultore Terracini, cugino del Senatore, l'ing. Levi del Municipio di Torino, Benedetto e Segre — un po' di tabacco racimolato a stento a Luserna.
Nella piazza di Airali vi erano due camion con un triste carico umano, una ventina di Valpellicesi rastrellati la mattina, tra i quali il Cav. Giovanni Mazzonis, il Comm. Silvio Turati, il sig. Gallia, l'avv. Peyrot ed il commerciante Donna di Torre, il sig Lotti, chimico dello Stabilimento Turati, il signor Gay, scomparso quest'anno, il signor Princivalle dell'ufficio Giudiziario, il signor Muria di Luserna Alta, Mario Favout, Castagno, Miegge, Giuseppe Gasca e qualche altro di cui non ricordo il nome.
Ci portarono a Pinerolo nella Caserma Bouchard, dove fummo rinchiusi in minuscole celle — cinque per cella — e abbandonati per alcuni giorni senza vitto e senza luce ed aria. Io devo alla generosità di Princivalle se potei nutrirmi, perché egli divise con me il pacco che ogni giorno gli portava la signora. Avevo un cugino a Pinerolo, ma non rispose ai miei appelli. Aveva paura di compromettersi.
Poi fummo portati alle Nuove (3), dopo una piccola sosta davanti al famigerato Albergo Nazionale, le cui sale sontuose devono ancora risuonare delle urla strazianti dei torturati. Lo chiamavano il Tribunale di giustizia, ma era invece la casa del sadismo e della ferocia. Alle Nuove i detenuti politici erano chiusi nelle celle del Braccio N. 1 tenuto dai Tedeschi. Ci misero in fila nel lungo corridoio e poi a turno ci introdussero nell'Ufficio del Maresciallo di Giustizia che prese le nostre generalità, mentre un giannizzero in camicia nera ci toglieva le bretelle ed il colletto, il portafoglio, orologio e documenti. Riconobbi il milite Era un confinario che avevo conosciuto al Piano del Littorio sopra Ghigo. I confinari di Ghigo erano dei buoni giovani delle nostre valli che amavano la popolazione e la aiutavano. Il cuore mi dette un balzo. Trovare un volto amico in un luogo di pena come il Braccio tedesco delle Nuove era come un raggio di speranza. Lo guardai, ammiccandogli, ma lui non rispose al mio muto appello. Mi frugò anzi più a fondo nelle tasche, me le rovesciò e fece cadere a terra le briciole di tabacco e i mozziconi di sigarette che potevano costituire qual che istante di paradiso nell'inferno della cella. Fanatismo? Ostinazione cieca nella difesa di ciò che era irrevocabilmente crollato? Fiducia nelle V2, l'arma segreta che avrebbe rovesciato le posizioni? Era uri po' di tutto questo, ma dal modo come mi guardava, compresi che ce l'aveva con me. Secondo lui io ero un traditore, perché non avevo aderito alla Repubblica di Salò. Era un semplice, quasi analfabeta e non poteva capire che la Repubblica di Salò non poteva far rivivere il fascismo. Mussolini ormai era un povero fantoccio nelle mani di Hitler.
Si era formata in quegli ultimi anni nei fascisti, quelli ignoranti incapaci di pensare, una psicosi di vendetta contro coloro che essi consideravano dei traditori La lotta civile, che divampava sinistra, era fatta di tante gamme psicologiche. C'erano i credenti nella libertà e giustizia accanto agli illusi sulla intramontabilità del regime, ma vi erano anche i loschi profittatori, gli arricchiti dei lanci e dell'assalto alle caserme, i sanguinari per istinto, gli spioni, gli eroi del doppio gioco ed i vendicatori. Perciò ora il milite, che era sempre stato gentile con me, benché non fosse delle nostre valli, aveva negli occhi qualcosa di duro come una condanna. Sospirai e poco dopo raggiunsi i miei compagni di galera.
La nostra cella era un locale abbastanza vasto al terzo piano, che chiamavano La Scuola. Quando vi entrammo, la trovammo già popolata da diciotto prigionieri. Erano quelli di Coazze, che ci furono prodighi di aiuto e di consigli. Vi erano due file di materassini, tremendamente sottili e duri dai quali uscivano, negli strappi, dei fili di paglia centenaria ed esemplari di una fauna repugnante. Fortunatamente ci avevano permesso a Luserna di prendere delle coperte ed avevamo in questo modo una pallida illusione di pulizia. Le pareti erano sudice ed istoriate qua e là di figure sconce a matita rozza mente disegnate. Fra le sbarre di un finestrino in alto, quasi sotto il tetto, si intravvedeva il cielo quanto mai azzurro e luminoso. Un cielo tremendamente contrastante con lo squallore osceno dello stanzone. Pensai che almeno avrei potuto guardarlo e sognare. Ed il sogno è l'unica bella realtà della vita
Più tardi fu introdotto un altro ospite. Era il Dottor Operti, che io avevo conosciuto al Barbara. Si soffocava e mancava il respiro. L'avv. Peyrot, che soffriva un po' d'asma, era diventato pallido. Lo installammo sopra un tavolo, laggiù in fondo, dove poteva captare qualche soffio d'aria, e subito si riprese.
Frattanto i buoni Coazzesi ci informarono della vita alle Nuove. Avevano già trascorso venti giorni in prigionia e speravano di essere presto rilasciati Anche loro, come noi, erano sospettati di collaborazione e favoreggiamento ai partigiani. Qualcuno era stato prelevato e non ne sapevano più nulla. Dal di fuori non pervenivano notizie, solo qualche pacco di vestiario. Sotto di noi vi erano celle dei partigiani, dove erano rinchiusi in cinque. Siccome si scendeva ogni giorno nel corridoio al piano terreno per il gabinetto, al quale si accedeva in fila, avevano potuto scambiare qualche parola con loro, ma ogni tanto qualcuno mancava. E si sapeva che non sarebbe più tornato. Il Braccio N. 1 era l'anticamera della morte.
Alle dodici si aprì la pesante porta tutta a lastre di ferro e fu spinto nella camera un enorme pentolone. Ci affrettammo a prendere le scodelle, ma a parecchi di noi non fu possibile trovare i grossi cucchiai di legno. La minestra, l'unico piatto del giorno, era un pastone di riso con zucchini. La assaggiai, servendomi delle dita, ma non mi andava giù. Era senza sale. Senza sale e senza cucchiai, perché eravamo quaranta ed i cucchiai, come ci dissero quelli di Coazze, erano solo diciotto. Ci guardammo negli occhi. Mario Favout esclamò tristemente : «Ma mi i meuiro. Tuti i di i mangio la pasta suita, un salam, un tomin (1)». Uno di Coazze gli battè sulle spalle: «Ma noi i soma 'ncora viv! A l'è que-stion d'abituesse, e 'd salvé la ghirba (2)».
Quando finii di mangiare, ingoiando con ripugnanza il pastone, e rimase scoperto il fondo della scodella di legno, che prima non avevo osservato, lessi alcune parole intagliate malamente forse con un bottone dai bordi taglienti. Vi era scritto : «Domani muoio impiccato. Viva la Patria e la libertà! Ave Maria». Michele Arduino.
Mi sentii un nodo alla gola.


(1) Ma io muoio. Tutti i giorni mangio la pastasciutta, un salame ed un tomino.
(2) Ma noi siamo ancora vivi! È questione di abituarsi e di salvare la pelle.
(3) Carcere di Torino
Tratto da:
Braccio tedesco n. 1
Tipografia Subalpina
Torre Pellice
Luigi Timbaldi
1962

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