Fui preso al Ponte Vecchio, dove si biforcano le due strade, una
pianeggiante e rossastra per Mugniva, l'altra per Rorà, tutta a
tourniqués sotto archi di trionfo di betulle e castani. Venivo da Rorà,
dove avevo portato ai miei amici ebrei — lo scultore Terracini, cugino
del Senatore, l'ing. Levi del Municipio di Torino, Benedetto e Segre —
un po' di tabacco racimolato a stento a Luserna.
Nella piazza di Airali vi erano due camion con un triste carico umano,
una ventina di Valpellicesi rastrellati la mattina, tra i quali il Cav.
Giovanni Mazzonis, il Comm. Silvio Turati, il sig. Gallia, l'avv.
Peyrot ed il commerciante Donna di Torre, il sig Lotti, chimico dello
Stabilimento Turati, il signor Gay, scomparso quest'anno, il signor
Princivalle dell'ufficio Giudiziario, il signor Muria di Luserna Alta,
Mario Favout, Castagno, Miegge, Giuseppe Gasca e qualche altro di cui
non ricordo il nome.
Ci portarono a Pinerolo nella Caserma Bouchard, dove fummo rinchiusi in
minuscole celle — cinque per cella — e abbandonati per alcuni giorni
senza vitto e senza luce ed aria. Io devo alla generosità di
Princivalle se potei nutrirmi, perché egli divise con me il pacco che
ogni giorno gli portava la signora. Avevo un cugino a Pinerolo, ma non
rispose ai miei appelli. Aveva paura di compromettersi.
Poi fummo portati alle Nuove
(3),
dopo una piccola sosta davanti al famigerato Albergo Nazionale, le cui
sale sontuose devono ancora risuonare delle urla strazianti dei
torturati. Lo chiamavano il Tribunale di giustizia, ma era invece la
casa del sadismo e della ferocia. Alle Nuove i detenuti politici erano
chiusi nelle celle del Braccio N. 1 tenuto dai Tedeschi. Ci misero in
fila nel lungo corridoio e poi a turno ci introdussero nell'Ufficio del
Maresciallo di Giustizia che prese le nostre generalità, mentre un
giannizzero in camicia nera ci toglieva le bretelle ed il colletto, il
portafoglio, orologio e documenti. Riconobbi il milite Era un
confinario che avevo conosciuto al
Piano
del Littorio
sopra Ghigo. I confinari di Ghigo erano dei buoni giovani delle nostre
valli che amavano la popolazione e la aiutavano. Il cuore mi dette un
balzo. Trovare un volto amico in un luogo di pena come il Braccio
tedesco delle Nuove era come un raggio di speranza. Lo guardai,
ammiccandogli, ma lui non rispose al mio muto appello. Mi frugò anzi
più a fondo nelle tasche, me le rovesciò e fece cadere a terra le
briciole di tabacco e i mozziconi di sigarette che potevano costituire
qual che istante di paradiso nell'inferno della cella. Fanatismo?
Ostinazione cieca nella difesa di ciò che era irrevocabilmente
crollato? Fiducia nelle V2, l'arma segreta che avrebbe rovesciato le
posizioni? Era uri po' di tutto questo, ma dal modo come mi guardava,
compresi che ce l'aveva con me. Secondo lui io ero un traditore, perché
non avevo aderito alla Repubblica di Salò. Era un semplice, quasi
analfabeta e non poteva capire che la Repubblica di Salò non poteva far
rivivere il fascismo. Mussolini ormai era un povero fantoccio nelle
mani di Hitler.
Si era formata in quegli ultimi anni nei fascisti, quelli ignoranti
incapaci di pensare, una psicosi di vendetta contro coloro che essi
consideravano dei traditori La lotta civile, che divampava sinistra,
era fatta di tante gamme psicologiche. C'erano i credenti nella libertà
e giustizia accanto agli illusi sulla intramontabilità del regime, ma
vi erano anche i loschi profittatori, gli arricchiti dei lanci e
dell'assalto alle caserme, i sanguinari per istinto, gli spioni, gli
eroi del doppio gioco ed i vendicatori. Perciò ora il milite, che era
sempre stato gentile con me, benché non fosse delle nostre valli, aveva
negli occhi qualcosa di duro come una condanna. Sospirai e poco dopo
raggiunsi i miei compagni di galera.
La nostra cella era un locale abbastanza vasto al terzo piano, che
chiamavano La Scuola. Quando vi entrammo, la trovammo già popolata da
diciotto prigionieri. Erano quelli di Coazze, che ci furono prodighi di
aiuto e di consigli. Vi erano due file di materassini, tremendamente
sottili e duri dai quali uscivano, negli strappi, dei fili di paglia
centenaria ed esemplari di una fauna repugnante. Fortunatamente ci
avevano permesso a Luserna di prendere delle coperte ed avevamo in
questo modo una pallida illusione di pulizia. Le pareti erano sudice ed
istoriate qua e là di figure sconce a matita rozza mente disegnate. Fra
le sbarre di un finestrino in alto, quasi sotto il tetto, si
intravvedeva il cielo quanto mai azzurro e luminoso. Un cielo
tremendamente contrastante con lo squallore osceno dello stanzone.
Pensai che almeno avrei potuto guardarlo e sognare. Ed il sogno è
l'unica bella realtà della vita
Più tardi fu introdotto un altro ospite. Era il Dottor Operti, che io
avevo conosciuto al Barbara. Si soffocava e mancava il respiro. L'avv.
Peyrot, che soffriva un po' d'asma, era diventato pallido. Lo
installammo sopra un tavolo, laggiù in fondo, dove poteva captare
qualche soffio d'aria, e subito si riprese.
Frattanto i buoni Coazzesi ci informarono della vita alle Nuove.
Avevano già trascorso venti giorni in prigionia e speravano di essere
presto rilasciati Anche loro, come noi, erano sospettati di
collaborazione e favoreggiamento ai partigiani. Qualcuno era stato
prelevato e non ne sapevano più nulla. Dal di fuori non pervenivano
notizie, solo qualche pacco di vestiario. Sotto di noi vi erano celle
dei partigiani, dove erano rinchiusi in cinque. Siccome si scendeva
ogni giorno nel corridoio al piano terreno per il gabinetto, al quale
si accedeva in fila, avevano potuto scambiare qualche parola con loro,
ma ogni tanto qualcuno mancava. E si sapeva che non sarebbe più
tornato. Il Braccio N. 1 era l'anticamera della morte.
Alle dodici si aprì la pesante porta tutta a lastre di ferro e fu
spinto nella camera un enorme pentolone. Ci affrettammo a prendere le
scodelle, ma a parecchi di noi non fu possibile trovare i grossi
cucchiai di legno. La minestra, l'unico piatto del giorno, era un
pastone di riso con zucchini. La assaggiai, servendomi delle dita, ma
non mi andava giù. Era senza sale. Senza sale e senza cucchiai, perché
eravamo quaranta ed i cucchiai, come ci dissero quelli di Coazze, erano
solo diciotto. Ci guardammo negli occhi. Mario Favout esclamò
tristemente : «Ma mi i meuiro. Tuti i di i mangio la pasta suita, un
salam, un tomin
(1)». Uno di Coazze
gli battè sulle spalle: «Ma noi i soma 'ncora viv! A l'è que-stion
d'abituesse, e 'd salvé la ghirba
(2)».
Quando finii di mangiare, ingoiando con ripugnanza il pastone, e rimase
scoperto il fondo della scodella di legno, che prima non avevo
osservato, lessi alcune parole intagliate malamente forse con un
bottone dai bordi taglienti. Vi era scritto : «Domani muoio impiccato.
Viva la Patria e la libertà! Ave Maria». Michele Arduino.
Mi sentii un nodo alla gola.
(1) Ma io
muoio. Tutti i giorni mangio la pastasciutta, un salame ed un tomino.
(2) Ma noi
siamo ancora vivi! È questione di abituarsi e di salvare la pelle.
(3) Carcere
di Torino
Tratto da:
Braccio tedesco n. 1
Tipografia Subalpina
Torre Pellice
Luigi Timbaldi
1962